L'universo dei non udenti


La sordità” costituisce una diversità e non un “handicap” che, per essere compresa, implica l’adozione di un linguaggio comunicativo “diverso”.
Lev Vygoskij


L’universo dei non udenti
di Virginia Marci


Il lavoro è centrato sulla realtà del mondo dei non udenti, dando particolare rilievo alla complessità delle relazioni interpersonali. E’ un’analisi della sordità, un deficit complesso, difficile da comprendere per le implicazioni che comporta sul piano
socio-affettivo-relazionale anche e soprattutto per le profonde barriere comunicative che il mondo degli udenti oppone a quello dei sordi. Il focus del lavoro è l’esplorazione dei caratteri e dei vissuti della persona non udente (con deficit di entità media, grave e profonda), la comunicazione e il linguaggio, in particolare quello non verbale e più specificatamente la lingua dei segni (LIS). I metodi educativi esistenti e le tecnologie disponibili.

Giugno 2010

INDICE
L’UNIVERSO DEI NON UDENTI 2
1.1 La sordità 3
1.2 La persona sorda 3
1.3 Deficit e handicap 4
1.4 La comunicazione 5 1.4.1 La comunicazione non verbale 7
1.4.2 La comunicazione e il sordo 8
1.5 L’educazione linguistica 11
1.5.1 I metodi oralisti 11
1.5.2 I metodi misti 12
1.5.3 L’educazione bilingue 12
1.6 La lingua italiana dei segni 14
1.7 La tecnologia 16
1.8 Bibliografia e sitografia 20
L’UNIVERSO DEI NON UDENTI
1.1 La sordità
La sordità è la riduzione più o meno grave dell’udito. La classificazione audiologica della sordità del Biap (Bureau International d’Audiophonologie) distingue quattro gradi di sordità con riferimento all’entità della perdita uditiva espressa in decibel: lieve, con soglia tra 20 e 40 decibel; media, con soglia tra 40 e 70 decibel; grave, con soglia tra 70 e 90 decibel; profonda, con soglia uguale o superiore ai 90 decibel. I differenti gradi di sordità influiscono diversamente nell’acquisizione e nello sviluppo del linguaggio vocale.
Nelle sordità lievi il bambino matura uno sviluppo del linguaggio normale, senza ritardo rispetto alle tappe più significative del processo evolutivo. Comprende il significato delle parole ma presenta difficoltà nel selezionare alcuni fonemi. Più precisamente omette o altera alcuni fonemi (ad esempio confonde la consonante /b/ con la consonante /p/). Nella sordità media il danno riguarda sia il significante (in questo caso il suono di una parola) che il significato (ciò che vuol dire quella data parola, cioè il concetto). Il danno produce ritardo nello sviluppo della comprensione e della produzione del linguaggio parlato. Nella sordità media se si aumenta l’intensità della voce migliora la comprensione del linguaggio vocale. Pertanto sono necessari la protesizzazione e l’intervento logopedico precocissimi, prima che la componente linguistica sia compromessa. Nella sordità grave e profonda non c’è percezione del parlato, neanche se l’interlocutore si trova a venti/trenta centimetri e parla ad alta voce. In questi casi, con la protesizzazione precoce, il bambino riesce a percepire l’intonazione della voce e viene aiutato nell’apprendimento vocale, ma non migliora la ricezione del suono a livello di intensità. Il bambino imparerà a parlare solo attraverso l’intervento logopedico, possibilmente precoce. In questi casi, l’educazione è molto complessa.
Il sordo difficilmente raggiunge una competenza linguistica completa nell’italiano scritto e in quello parlato. Tuttavia quanto più l’educazione è precoce tanto maggiori sono le possibilità di avere buoni risultati. “Gli studi clinici che riportano casi di bambini-lupo abbandonati a sé stessi indicano che dopo i dodici anni è molto difficile imparare il linguaggio; mentre l’età cruciale per ottenere buoni risultati è tra 0 e 4 anni, quando il bambino udente acquisisce le strutture fondamentali della lingua a cui è esposto” 1
1.2 La persona sorda
L’articolo 1 della Legge 26.5.1970, n. 381 così definisce la persona sorda:
"Si considera sordomuto il minorato sensoriale dell'udito affetto da sordità congenita o acquisita durante l'età evolutiva che gli abbia impedito il normale apprendimento del linguaggio parlato, purché la sordità non sia di natura esclusivamente psichica o dipendente da causa di guerra, di lavoro o di servizio".
Individuare la causa della sordità è uno dei compiti più difficili dello specialista, che nel redigere la diagnosi non sempre riesce ad ottenere indicazioni o informazioni utili.
Secondo il D.M. 5.2.1992 “Causa della sordità è la perdita uditiva congenita o contratta prima del 12° anno di età e corrispondente ad una ipoacusia pari o superiore a 75 db (decibel) di media tra le frequenze 500, 1000, 2000 Hertz sull'orecchio migliore”.
Le cause della sordità possono quindi raggrupparsi nelle due grandi aree delle sordità congenite, insorte prima della nascita, e delle sordità acquisite, insorte al momento della nascita (neonatali) o in seguito (postnatali). Tra le cause delle prime possono esservi fattori ereditari, virali (come la rosolia, l’epatite, il morbillo contratti dalla madre in gravidanza), cause microbiche (tifo, sifilide), tossiche (abuso di alcool, di barbiturici ecc.). Tra le cause delle sordità neonatali si individuano l’anossia, i traumatismi, l’ittero ecc. Tra le postnatali troviamo i traumi, le malattie infettive (incluse quelle dell’orecchio), le intossicazioni da farmaco ecc.. Nonostante la medicina preventiva (vaccinazioni) i casi di sordità non sembrano diminuire a livello globale, causa l’incremento di casi di sordità dovuti a incidenti stradali, intossicazioni chimiche, inquinamento acustico. In Italia la sordità grave colpisce una persona su 1.000 (circa) e attualmente si contano oltre 60 mila “sordomuti” o sordi prelinguali (divenuti sordi prima di acquisire il linguaggio).
La sordità rende difficili l’acquisizione del linguaggio parlato e le relazioni sociali, l’integrazione a scuola e lo sviluppo culturale. In mancanza di un adeguato sostegno specializzato può condurre all'emarginazione e all'analfabetismo. Il recupero funzionale della sordità è possibile mediante la protesizzazione precoce, la terapia logopedica e l'istruzione scolastica secondo le modalità previste dalla Legge 517/77 (artt. 2 e 10), nonché dal D. Lgs. 16.4.1994, n. 297. L'apprendimento avviene attraverso gli occhi (vista) che sostituiscono le orecchie (udito) e con adeguate scelte metodologiche: lettura labiale e/o Lingua dei segni, riconosciuta dal Parlamento Europeo con Direttiva comunitaria del 17.6.1988.
1.3 Deficit e handicap
La parola sordità è comunemente usata per indicare il deficit sensoriale uditivo e l’handicap che ne consegue. Fra le due accezioni tuttavia esiste una profonda differenza. Con il vocabolo “deficit” ci si riferisce alla quantità o alla qualità della perdita uditiva, misurabili attraverso la diagnosi audiologica. Nel caso della sordità l’handicap che ne consegue è l’impossibilità di percepire e decodificare i suoni ambientali, in particolare quelli emessi attraverso il canale vocale per comunicare.
A tal proposito Lev Vygotskij nel suo “Pensiero e Linguaggio” scrive: "Egli (il sordo) avverte l’handicap solo indirettamente o secondariamente, come risultato delle sue esperienze sociali".
La sordità del bambino nei suoi vissuti rappresenta la normalità. Di per sé la mancanza dell’udito non è altro che l’assenza di una delle modalità sensoriali attraverso cui il bambino interagisce con l’ambiente. Assenza che viene compensata dallo svilupparsi di strategie sensoriali e percettive che privilegiano la vista. La compensazione è un processo di crescita e di ristrutturazione globale del comportamento e della psiche del bambino con deficit e mai solo una sostituzione di una funzione con un’altra.
A motivo di ciò il bambino sordo ha le stesse potenzialità di apprendimento del bambino udente. La differenza tra i due bambini, di cui occorre tener conto nel processo educativo, sta nell’uso privilegiato nei sordi del canale sensoriale visivo anziché di quello uditivo. Occorre individuare perciò il carattere creativo dello sviluppo della persona: "...lo sviluppo, complicato dal deficit, rappresenta un processo creativo (fisico e psicologico): la creazione e ri-creazione della personalità del bambino basata sulla ristrutturazione di tutte le funzioni e sulla formazione di nuovi processi generati dall’handicap e creanti nuove e non lineari vie di sviluppo" (Vygotskij, op. cit.).
La sordità dunque di per sé non costituisce un problema ma può diventarlo nel momento in cui il soggetto entra in rapporto con il mondo che lo circonda. È nel rapporto dell’individuo con gli altri “diversi” da lui che la sordità rischia di connotarsi come problema. L’handicap causato dalla sordità, infatti, è invisibile a uno sguardo superficiale e difficile da mettere a fuoco nei suoi molteplici aspetti. La sordità non si vede. E’ riconoscibile solo al momento di comunicare. La famiglia, la scuola, le istituzioni devono e possono trovare un modo per adattarsi alle esigenze del bambino sordo e per accoglierlo in un ambiente che consente una crescita adeguata alle sue potenzialità.
1.4 La comunicazione
La comunicazione (dal latino cum= con, e munire= legare, costruire) è un processo continuo di trasmissione di informazioni e co-creazione di significati tra persone costituito da un soggetto (emittente) che ha intenzione di far si che l’altro (il ricevente) pensi o faccia qualcosa.
La complessità della comunicazione umana, non permette di avere un unico “modello” di riferimento di Teoria della comunicazione. Ciò è riconosciuto e confermato dalle stesse discipline che, direttamente o indirettamente, se ne sono occupate, dalla psicologia alla sociologia, dalla filosofia alla semiologia. In altre parole, non esiste un unico modello di comunicazione ma, al contrario, ve ne sono numerosi, molti dei quali partono dall’assunto che l’essere umano è, per origine e struttura, fatto per la relazione. In tali prospettive la comunicazione, come fatto sociale e in tutte le sue espressioni autentiche, libera l’uomo, si pone come risorsa per la sua realizzazione e la sua felicità e come prerequisito per la creazione e lo sviluppo di sistemi sociali. Gli uomini formano una comunità, cioè una società, proprio perché, intrecciando fra loro rapporti possibili, comunicano fra di loro.
Un bellissimo canto irlandese conferma e rafforza questa tesi recitando: “se io do un dono a te e tu dai un dono a me, abbiamo fatto scambio e pareggiato, ma se io do un’idea a te e tu dai un’idea a me, abbiamo raddoppiato”. Comunicare vuol dire dunque “fare qualcosa per rendere comune qualcosa ad altri di proprio senza perderlo”.
La comunicazione appartiene all’essenza dell’uomo. Egli infatti non può essere solamente sostanza individuale, dato che da sempre “è” con l’altro e con lui quindi “comunica” con il linguaggio, i gesti, i segni etc.

Significa che la relazione (comunicazione) è costitutiva dell’uomo, insita nella sua natura. No, non è possibile all’uomo non comunicare, pena il passaggio da uno stato di alterità ad uno stato di alienità.
Secondo gli studiosi della scuola di Palo Alto (California), la comunicazione è finalizzata alla strutturazione del sé da parte dei soggetti che si relazionano nell’evento comunicativo. In questa relazione i due soggetti strutturano il loro “sé”. Da qui l’impossibilità per l’essere umano di non comunicare. Ciò perché tutto il nostro stesso comportamento, per la sola presenza di un’altra persona, viene modificato, diviene comunicazione. Quindi non è neppure indispensabile che ci siano l’intenzionalità e la volontà di comunicare. La presenza stessa dell’altro informa tutto il nostro atteggiamento. 
1.4.1 La comunicazione non verbale

È convinzione comune che il linguaggio verbale, pur restando il canale privilegiato della comunicazione umana, non sia esaustivo. L’abitudine a considerare, nella comunicazione, l’espressione verbale parlata e scritta come preminente, ha reso marginale l’attenzione verso gli aspetti non verbali della stessa comunicazione.

Il modello complessivo della comunicazione tra esseri umani si realizza attraverso l’uso simultaneo e interattivo, dove la comprensione e la lettura interpretativa vengono determinate oltre che dalla parola, cioè dal linguaggio verbale, conscio, da un linguaggio parallelo, inconscio e corporeo.

È allora evidente che l’insieme dei segnali non verbali viene a costituire parte integrante dell’interazione comunicativa. In ogni momento della nostra vita, noi interagiamo con la realtà, inviando messaggi non verbali quali i gesti, l’atteggiamento, la postura, lo sguardo, i silenzi, che accompagnano, sostituiscono, rinforzano, contraddicono le nostre parole.

I segnali non verbali, in quanto istintivi, poco controllabili dalla persona stessa che li esprime, sono indici rivelatori dell’incongruenza del messaggio.
Può avvenire che con le parole possiamo “mentire“ su uno stato d’animo o camuffare sensazioni, mentre il nostro corpo dice il contrario.

La comunicazione non verbale, considerata come “linguaggio di relazione”, è ritenuta lo strumento principale per segnalare i cambiamenti di qualità nel processo delle relazioni interpersonali, sia per quanto riguarda i rapporti di ruolo, sia per le espressioni degli atteggiamenti interpersonali.
Una delle funzioni della comunicazione non verbale, è senz’altro quella di esprimere emozioni.

I segnali non verbali che più esplicitano le emozioni si collocano sul volto. Lo sguardo in particolare è un elemento chiave di lettura interpretativa poiché comunica il maggior numero di informazioni. Nel viso, zona particolarmente espressiva si possono leggere precisamente sei emozioni fondamentali: felicità, paura, sorpresa, rabbia, disgusto e tristezza.

1.4.2 La comunicazione nel sordo

Le difficoltà nel comunicare verbalmente attraverso il codice linguistico genera nei sordi, in alcuni casi, atteggiamenti di chiusura o irritabilità. Tali atteggiamenti, che siano mostrati da un allievo all’interno della scuola quanto in ambito familiare, spesso non vengono compresi dalle persone che entrano in relazione con lui. E’ semplice e sbrigativo attribuire alla condizione di sordità l’origine stessa della diffidenza, dell’irritabilità o del carattere polemico svalutando le conseguenze psicologiche della quotidiana sfida del sordo contro la sua stessa condizione e le barriere “sociali” che lo limitano nel comunicare. Infatti, seppure il primo assioma della comunicazione reciti “Non si può non comunicare” è pur vero che questo vale fintanto ci sia una condivisione di codici e di intenti nel voler comunicare e ascoltare.
La difficoltà sperimentata dal sordo nel comunicare con gli udenti è spesso alla base di vissuti di frustrazione che si estrinsecano come atteggiamenti aggressivi o difensivi. Per cui il rischio è che si inneschi un circolo vizioso nel quale “la diversità” degli interlocutori piuttosto che rimanere risorsa della relazione ne compromette l’instaurarsi stesso. Dalla parte dei sordi la difficoltà, se non l’impossibilità, di instaurare relazioni interpersonali naturali fa nascere un elevato livello di frustrazione e disagio esistenziale. La via autentica è quella della relazione, del rapporto interpersonale e della condivisione. I comportamenti aggressivi sono risposte a bisogni non soddisfatti. La solitudine, in cui spesso si trovano i sordi, è la condizione per porre la domanda, ma la risposta è il superamento della solitudine. Quale condizione genera incomunicabilità? La sordità o il silenzio in cui si è avvolti che nasce dal pregiudizio di chi ha orecchi per sentire, ma non ascolta.
La frustrazione vissuta viene espressa, dai sordi, attraverso la comunicazione non verbale piuttosto che attraverso le parole. Questa prevalenza del canale non verbale nell’esprimere i propri vissuti fa si che l’intensità delle stesse espressioni sia aumentata rispetto all’espressione della stessa emozione data da un normoudente. In realtà tutti gli esseri umani si avvalgono della comunicazione non verbale proprio per poter esprimere emozioni e sentimenti che altrimenti non troverebbero “voce” con il linguaggio verbale. Ma la risposta data dal sordo viene spesso fraintesa e “giudicata” con maggiore rigore rispetto alla reazione dell’udente.
Dall’altra parte della interazione, gli udenti manifestano la propria frustrazione legata alla difficoltà di entrare in relazione comunicativa con un altro “diverso” da sé, assumendo un atteggiamento difensivo e di distacco.
Tra i motivi di questo comportamento c’è forse anche il senso di inadeguatezza provato dall’udente di fronte alle difficoltà di comunicazione con la persona sorda e, per essere più espliciti, la paura del confronto con il diverso da sé. Questo accade, per vari motivi, ancor più nei genitori udenti di un bambino sordo. Il forte coinvolgimento emotivo e l’affettività non propriamente educata porta il genitore a proiettare nel figlio desideri e aspettative di “normalità”, creando, di fatto, un ostacolo all’acquisizione di una autonomia personale e comunicativa da parte del figlio. Sono proprio questi i genitori che si ostinano ad adottare il linguaggio verbale come unica modalità di comunicazione con il proprio figlio sordo, finendo per “comunicare” (mettere in comune) di non voler comunicare affatto.
Le difficoltà di comunicazione con una persona sorda trovano origine spesso da pregiudizi sulla sordità ancora molto diffusi, anche tra gli addetti ai lavori. L’apparato vocale dei sordi è integro pertanto anche il bambino sordo, pur mancando di una verifica da parte dell’udito, può imparare, nel corso della terapia logopedica, a governare l’emissione dei suoni.
In una prospettiva socioculturale, ogni “muto” diventa “parlante” non solo se si impadronisce della parola parlata, ma quando riesce a far propri gli strumenti della comunicazione, qualunque sia la modalità di linguaggio adottata. E’ la facoltà di linguaggio e non la sua modalità, che consente la comunicazione e di uscire dal mutismo. E nelle persone sorde la facoltà linguistica è inalterata.
Un altro pregiudizio consiste nel ritenere che i sordi abbiano un ritardo mentale complessivo. La sordità di per sé non comporta disfunzioni a livello cerebrale e psichico, è un deficit sensoriale e non cognitivo. I problemi del bambino sordo riguardano, come già sottolineato, l’acquisizione della lingua verbale, perché questa viaggia sulla modalità acustica che in lui è deficitaria.
La famiglia, la scuola, le strutture di competenza, spesso non sono disposte, predisposte e preparate per una comunicazione che sfrutti le capacità integre del sordo, tra cui la vista. Pertanto il bambino sordo resta spesso escluso, negli anni più importanti per l’acquisizione del linguaggio, dalla comunicazione linguistica verbale che gli adulti usano con lui e fra di loro.

1.5 L’educazione linguistica
Nell’educazione al linguaggio del bambino sordo oggi, grazie alle numerose ricerche svolte su questa tematica, anche in Italia si è superato il metodo oralista sancito dal Congresso di Milano del 1880. E’ possibile pertanto scegliere tra vari percorsi riabilitativi: metodi oralisti, metodi misti, educazione bilingue. Obiettivo comune a questi metodi è il raggiungimento della migliore competenza possibile nella lingua parlata e scritta.
1.5.1 Metodi oralisti
Tutti i metodi oralisti condividono l’esclusione, nell’educazione al linguaggio parlato e scritto, di qualsiasi uso dei segni. Essi puntano, da una parte, sull’allenamento acustico per aiutare il sordo ad utilizzare al massimo i suoi residui uditivi e, dall’altra, sul potenziamento della lettura labiale su cui si basa la comunicazione. Altra caratteristica dei metodi oralisti è il privilegiare, nell’educazione alla lingua parlata e scritta, l’aspetto della produzione piuttosto che quello della comprensione. Eppure la comprensione è preponderante soprattutto nelle prime fasi dell’acquisizione spontanea del linguaggio nel bambino udente.
Gli oralisti focalizzano l’intervento logopedico in alcuni punti essenziali, quali la diagnosi precoce, l’esatta valutazione del deficit, l’immediata protesizzazione, la collaborazione della famiglia nell’intervento logopedico, l’integrazione nelle scuole normali. Questi aspetti della metodologia oralista sono comuni anche ai metodi misti (cfr prf seguente), vale a dire a quei metodi che utilizzano i segni nella terapia e che hanno anch’essi come obiettivo l’insegnamento della lingua vocale al bambino sordo.
Tuttavia vi sono grandi difformità tra i due metodi. Differenze che non riguardano esclusivamente l’uso dei segni, accolti nei metodi misti, ma soprattutto nell’approccio con la famiglia e nella scelta di quali ambiti del linguaggio privilegiare. Nei metodi misti la comprensione viene prima della produzione.
Nel caso dei metodi oralisti il ruolo fondamentale nell’educazione al linguaggio del bambino sordo viene affidato in modo eccessivo alla famiglia e soprattutto alla madre, il cui forte coinvolgimento nell’intervento riabilitativo può portare ad una confusione dei ruoli (madre/insegnante-logopedista) con gravi conseguenze sul piano psicologico.

1.5.2 Metodi misti
Nel metodo logopedico misto, la parola vocale è accompagnata dal segno corrispondente lasciando inalterata la struttura della lingua verbale. “Bimodale” significa doppia modalità.
Nella metodologia bimodale vengono utilizzate la modalità acustico-verbale -si parla- e la modalità visivo-gestuale -si segna- ma un’unica lingua: l’italiano. Oltre all’italiano segnato (IS), nel metodo bimodale si può far uso dell’italiano segnato esatto (ISE). Più precisamente, si utilizzano, per tutte quelle parti del discorso a cui non corrispondono dei segni come articoli, preposizioni, plurale dei nomi, gli evidenziatori (segni artificiali) e la dattilologia (alfabeto manuale).
In pratica, quando si parla con il bambino sordo, si dà un supporto gestuale a tutto quello che viene detto. I segni diventano così una sorta di “sostegno” che il bambino usa quando ancora non padroneggia il linguaggio verbale. Così da poter rispettare le stesse tappe evolutive del bambino udente. Viene data inoltre priorità alla comprensione del linguaggio rispetto alla produzione.
1.5.3 Educazione bilingue
Nell’educazione bilingue il bambino sordo è esposto contemporaneamente alla lingua vocale e alla lingua dei segni. I sostenitori dell’educazione bilingue asseriscono che le persone sorde acquisiscono con molta facilità la lingua dei segni. La motivazione è nel fatto che i segni viaggiano sulla modalità visivo-gestuale e, quindi, su un canale integro. Lo stesso non accade con la lingua vocale.
La concretizzazione di un’educazione bilingue comporta una serie di problematiche in ambito linguistico e psicologico. Prima fra tutte la difficoltà di esporre precocemente alla lingua dei segni il bambino sordo figlio di genitori udenti, che non conoscono la LIS o se l’hanno imparata non è per loro comunque una prima lingua. Un’altra difficoltà consiste nell’individuare i sordi veramente competenti nella LIS e in grado di trasmetterla. In Italia si stimano in circa 5.000 unità i sordi figli di genitori sordi che hanno acquisito la lingua dei segni come lingua madre.
Anche se nell’ultimo quarto di secolo, la comunità italiana dei sordi si è in qualche modo riappropriata, dopo la risoluzione del Congresso di Milano del 1880 che decretò la fine dell’educazione bilingue, del problema dell’educazione al linguaggio dei suoi membri. Molti sordi si stanno infatti impegnando in attività scolastiche o di insegnamento della LIS.
In questi ultimi anni il mondo della ricerca ha aperto nuove prospettive nella vita delle persone sorde. La lingua dei segni e la tecnologia offrono possibilità, sia pure profondamente diverse, per abbattere le barriere comunicative.
Fino a poco tempo fa le persone sorde si auto-emerginavano da situazioni pubbliche, come dibattiti, seminari, convegni, interviste alla radio o alla televisione, riunioni a livello istituzionale delegando agli udenti la loro rappresentanza, a causa di soggettive difficoltà di comunicazione (come ad esempio una brutta voce o una lettura labiale poco veloce) e per motivi oggettivi, connessi alla difficoltà di seguire più interlocutori in un ambiente ampio (si pensi alla classica riunione, in cui ci si siede intorno ad un tavolo lungo 6/7 metri, dove è materialmente impossibile vedere in faccia tutti i partecipanti).
Oggi, la consapevolezza di appartenere ad una comunità linguistica, rafforzata senza dubbio dagli studi che in Italia sono cominciati quasi trenta anni fa e hanno ampiamente dimostrato che anche la LIS (analogamente alle altre lingue dei segni straniere) è a tutti gli effetti una lingua, hanno portato molte persone sorde ad utilizzare i segni nella comunicazione in pubblico (mediante un interprete che dà loro la voce) consentendo alla comunità dei sordi di rappresentarsi, in prima persona, nelle richieste per migliorare la qualità della vita. Il bilinguismo (conoscere l’Italiano e la Lingua dei segni) diventa dunque a la vera strada per l’autonomia dei sordi.

1.6 La lingua italiana dei segni
I segni usati dai sordi non sono un semplice insieme di gesti per comunicare. I segni hanno una grammatica ben precisa, regole per declinare i verbi, per il plurale e il singolare. Sono una vera e propria lingua (al pari delle lingue vocali). I sordi hanno sempre usato la lingua dei segni, per molto tempo di nascosto visto che i gesti erano considerati “poveri” e il pregiudizio portava (e porta ) a pensare che i sordi usando i segni non avrebbero mai imparato a parlare.
La risoluzione finale del Congresso internazionale di Milano (appena sopra citato), cancellò la tradizione bilingue, affermò la superiorità educativa del metodo oralista e del suo uso come unico metodo di educazione e istruzione per i sordi in Italia.
Oggi l'atteggiamento è in gran parte cambiato, anche grazie al contributo di diversi studiosi che si sono occupati della lingua dei segni. Le ricerche hanno avuto inizio negli anni Sessanta, quando il linguista americano William Stokoe dimostrò per primo che la Lingua dei segni americana, la Asl (American Sign Language), presentava tutte le caratteristiche morfologiche, grammaticali, sintattiche di ogni lingua naturale. Le lingue dei sordi, al pari di tutte le lingue del mondo, oltre ad avere proprie caratteristiche, si differenziano da Paese a Paese e da Regione a Regione. E come tutte le minoranze linguistiche anche i sordi hanno una loro cultura. W. Stokoe considerò tutto ciò che la sordità produce come cultura. Tradizioni che si possono tramandare, racconti e poesie in segni, e tutto il bagaglio di conoscenze teoriche e simboliche trasmesse dai sordi di generazione in generazione. Il lavoro di W. Stokoe fu veramente rivoluzionario. Precedentemente, nemmeno i sordi erano consapevoli del fatto che i segni costituissero una vera e propria lingua e fossero portatori di una cultura peculiare.
Altri ricercatori, sull’onda di W. Stokoe, in tutto il mondo, hanno iniziato a studiare le loro lingue dei segni. In Italia, all'Istituto di psicologia del CNR di Roma da quasi trent’anni ricercatori udenti e sordi studiano la Lingua dei segni italiana (LIS). Hanno dimostrato che, come quella americana, anche la Lingua dei segni italiana costituisce una vera e propria lingua.
Gli studi sulla cultura sorda italiana, in ambito accademico, tuttavia sono ancora poco sviluppati rispetto ad altri Paesi. Una tappa importante in questo panorama è stato il convegno "Cultura del gesto, cultura della parola. Viaggio antropologico nel mondo dei sordi" organizzato nel 1996 da un gruppo di studenti del dipartimento di studi Glotto-antropologici dell’Università “La Sapienza” di Roma. E’ stato il primo convegno che ha affrontato in chiave antropologica temi relativi alla sordità con la volontà di dare un impulso a questo tipo di ricerche anche nel nostro Paese.
Un’antropologia della sordità che consideri la sordità non come non come deficit sensoriale, ma piuttosto come risorsa che genera cultura. Una cultura forse difficile da definire, visto che non esiste geograficamente un luogo abitato dai sordi, ma che molti sordi identificano proprio con la lingua dei segni.
Questa lingua, infatti, non solo è portatrice della comunicazione e del linguaggio dei sordi, ma è lo strumento di una percezione del mondo tutta particolare che si basa sulla visione, senza il suono.
La LIS è l'unica lingua che può essere acquisita spontaneamente attraverso le stesse tappe del linguaggio parlato, perché si trasmette attraverso il canale visivo che nel sordo è integro. Ed è proprio attraverso questo canale che, grazie alla logopedia, passa anche l'acquisizione della lingua parlata.
Una risoluzione del Parlamento europeo del 1988 invitava, come già evidenziato, i Paesi membri a riconoscere le rispettive lingue dei segni come lingue ufficiali. L'Italia non si è ancora uniformata a questa disposizione. Fortunatamente è oggi all’esame della Commissione Cultura della Camera la proposta di legge (n. 351 del 29 aprile 2008) d’iniziativa, del deputato Antonio De Poli per il “Riconoscimento della Lingua italiana dei segni”. La proposta, in quattro articoli, prevede il riconoscimento e la conseguente tutela della LIS come lingua non territoriale della comunità dei sordi in applicazione dell’art. 3 della nostra Costituzione e della normativa europea sulle lingue regionali o minoritarie. Stabilisce l’uso della LIS in giudizio e nei rapporti con le Amministrazioni pubbliche, garantisce l’insegnamento della LIS in ogni ordine di scuola e all’Università e incentiva le trasmissioni televisive nelle quali è utilizzata la LIS e quelle gestite dai sordi. Le norme regolamentari della proposta si pongono nelle linee tracciate dalla Legge n. 104/92 “Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”.
Forse si percorrono i primi passi verso quei valori descritti da Renato Pigliacampo?2 “Il bambino sordo è una ricchezza che si può e si deve scoprire con la lingua dei segni. Che è la sua principale lingua, senza che questo gli impedisca l’apprendimento delle altre lingue, in primis la lingua vocale parlata dalla maggioranza. Ma perché questo sia possibile dobbiamo liberarci dai pregiudizi, dalle mezze verità, dal tornaconto per rimboccarci le maniche favorendo e costruendo una società a misura di tutti. Sappiamo che non è un traguardo utopistico: è una realtà a portata di mano dell’uomo sordo, dell’uomo udente. Solo così, dopo, saremo persone senza etichetta.”
1.7 La tecnologia
In questo ultimo secolo la tecnologia ha rivoluzionato la vita di tutti; ancor di più quella dei sordi. I mezzi che facilitano la vita delle persone sorde, raggruppati per aree, sono:
  • Dispositivi che migliorano la vita quotidiana (avvisatori luminosi, Dts, videotelefono, ecc.);
  • Dotazioni che consentono di accedere all’informazione e alla cultura (computer e sottotitoli);
  • Apparati che migliorano la capacità di utilizzare il residuo uditivo (protesi e impianto cocleare).
Al primo gruppo appartengono quei dispositivi che sostituiscono al segnale sonoro un segnale luminoso. Lo squillo del campanello fa accendere una luce verde sulla porta, il suono del citofono diventa una luce rossa, il trillo del Dts (dispositivo telefonico per sordi) fa lampeggiare la luce collegata, il pianto del neonato viene segnalato da una luce, così le fughe di gas, il timer del forno, la sveglia e il videotelefono.
Oltre a questi apparati, si sono sviluppate altre tecnologie come computer e sottotitoli. I computer con la possibilità di comunicare in tempo reale in tutto il mondo, i programmi che facilitano alle persone sorde l’accesso alla cultura perché viaggiano su una modalità visiva, i software specifici per l’educazione alla lingua parlata (ad esempio Speech) danno opportunità fino a pochi anni fa impensabili. In alcuni software convivono in un eccellente equilibrio il linguaggio multimediale e la Lingua dei segni, offrendo al bambino sordo molteplici modalità di accesso. Dopo un inizio felice, sembra che l’interesse per le aziende a costruire programmi educativi specifici per i sordi si sia affievolito. Un intervento istituzionale (come, ad esempio, dare incentivi alle industrie) potrebbe stimolare lo sviluppo di questo percorso che ha dato buoni risultati.
Anche i sottotitoli contribuiscono a rompere l’isolamento e consentono ai sordi un accesso immediato alle informazioni e alle conoscenze. Con i sottotitoli, soprattutto in ambito televisivo, si attiva una sorta di educazione permanente, in cui le persone sorde, arricchiscono e migliorano la loro competenza morfosintattica e lessicale. In questo campo è stato fatto molto, ma ancora molto si deve fare.
Mancano i sottotitoli in diretta, così accade che una persona sorda non possa seguire un dibattito. La quantità di ore sottotitolate è ancora troppo limitata. Prevalgono i programmi di evasione, restano insufficienti i programmi culturali. I telegiornali hanno la finestra con l’interprete di Lingua dei segni, ma in poche edizioni e in fasce orarie non di punta. Occorre migliorare il servizio sia in quantità che in qualità tenendo conto di molteplici problematicità: utenza eterogenea, diversa velocità tra il parlato e lo scritto, difficoltà a rendere nel testo le sfumature della voce, i doppi sensi, le metafore, tipici della lingua parlata.
Con riferimento al terzo gruppo di dispositivi si fa accenno alla protesizzazione e all’impianto cocleare. Per l’applicazione delle protesi acustiche è necessario individuare il grado di sordità, quantificare i residui uditivi e misurarne la qualità. I residui sono utilizzabili quando la perdita di udito non supera gli 85 decibel. In questi casi con l’applicazione delle protesi si può colmare il deficit e garantire una buona percezione dei suoni. Sull’efficacia della protesizzazione incidono naturalmente anche altri fattori quali l’età del soggetto, la precocità dell’intervento, lo stadio di sviluppo del linguaggio e il periodo di insorgenza del deficit. Quando la perdita di udito supera i 90 decibel i residui non sono utili per distinguere le parole.
Alcuni tra i sordi profondi esprimono perplessità sull’efficacia della protesi e manifestano dubbi che dietro la loro condizione si nascondano interessi da parte di coloro che gestiscono il settore della riabilitazione. Estremizzare questa posizione rischierebbe però di scoraggiare la protesizzazione precoce, che senza risolvere i problemi dei sordi profondi può metterli in condizione di percepire i suoni. Il compito delle protesi è di amplificare i suoni, ma non consente la comprensione della parola. Il rischio connesso all’uso delle protesi, verso il quale occorre mettere in guardia, è quello di ritardare altre attività pedagogiche e psicoterapiche in grado di aiutare davvero il bambino sordo nello sviluppo del linguaggio.
L’impianto cocleare, sperimentato negli Stati uniti sin dagli anni ottanta, è stato applicato in Italia per la prima volta nel 1992. Numerosi sordi e genitori di sordi si interrogano sull’opportunità di questo intervento. Questo perchè se dal punto di vista tecnico e riabilitativo le informazioni sono esaustive, poco ancora si conosce su quali siano le esperienze e i vissuti delle persone sottoposte ad impianto.
L’impianto cocleare è una apparecchiatura sofisticata che simula il processo di elaborazione del suono (mentre la protesi acustica amplifica il suono) traducendo i segnali acustici in segnali elettrici, che oltrepassando le strutture danneggiate dell’orecchio interno, stimolano direttamente il nervo acustico. In caso di danno al nervo cocleare, l’impianto non è indicato. Potrebbero invece trarne giovamento le persone con sordità bilaterale grave e profonda, che non hanno benefici dalle protesi tradizionale.
Tuttavia occorre sempre tener presente che un intervento di implantologia non ridà immediatamente la possibilità di sentire, ma richiede una terapia logopedica, a volte lunga, basata su esercizi di stimolazione uditiva per imparare a conoscere o ri-conoscere i suoni e i rumori e poi le parole e le frasi. Il recupero uditivo e i benefici variano da persona e persona. Dipendono dal grado di funzionalità della coclea e dalla motivazione all’intervento.
Un accenno merita la posizione dell’Ente Nazionale Sordomuti, che mette in guardia i sordi di fronte ad un’azione pubblicitaria che presenta l’operazione come la bacchetta magica che può ridare l’udito alle persone sorde. Il timore dell’Ente è che, dietro queste affermazioni, si nasconda un grande business sulla pelle dei sordi, come altre volte è successo nel nostro Paese. La posizione di grande cautela dell’ENS trova riscontro nel Rapporto del Gruppo di Lavoro multidisciplinare sugli impianti cocleari, istituito su richiesta della Comunità Europea dall’EUD (Unione Europea dei Sordi).
Le conclusioni- raccomandazioni, cui il gruppo è giunto dopo un’accurata ricerca, sono state: “i genitori devono essere in condizione tale da effettuare una scelta informata sulla base di informazioni equilibrate; c’è la necessità di una visione più chiara sulla "pratica migliore" nel campo dell’implantologia cocleare pediatrica; si sente l’esigenza di uno studio di lungo termine sugli effetti linguistici, psicologici e sociali dell’impianto cocleare”.3
La tecnologia ha sicuramente migliorato la qualità della vita dei sordi, ma non si può assolutizzare pensando che rappresenti la soluzione. Se all’alta tecnologia non fa da contrappeso un alto contatto umano, in pratica non si comunica. Gli strumenti sono vuoti e senz’anima. Gli strumenti non sono la comunicazione, ma sono necessari.
1.8 Bibliografia e sitografia

Canevaro A. (a cura di), L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, Erickson, Gardolo -TN, 2007

Favia M.L., Una scuola oltre le parole. Comunicare senza barriere: famiglia e istituzioni di fronte alla sordità, Franco Angeli,Milano, 2003

Jakobson R., Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano, 1966

Larocca F., Azione mirata,, Franco Angeli, Milano, 2008

Maragna S, La sordità, Hoepli, Milano, 2004

Maragna S., Una scuola oltre le parole. Educare il bambino sordo alla lingua parlata e scritta, Franco Angeli, Milano, 2003

Pigliacampo R., Lingua e linguaggio nel sordo, Armando Ed, Roma, 1998

Sacks O., Vedere voci: un viaggio nel mondo dei sordi, Adelphi, Milano, 1993

Vygotskij L., Pensiero e linguaggio, Giunti e Barbera, Firenze, 1984

Watzlawick P., Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma,1971

http://www.erickson.it


http://www.accaparlante.it
1 Maragna S, La sordità, Hoepli, Milano, 2004, pag. 16

2 Pigliacampo R., Lingua e linguaggio nel sordo, Armando Ed, Roma, 1998, pag. 13



3 Fonte: Documenti forniti da Ente Nazionale Sordi – Sezione di Cagliari

Nessun commento:

Posta un commento